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La risoluzione ONU n. 1325 del 2000 “Donne, pace e sicurezza” sottolinea l'importanza dell’inclusione delle donne nei processi negoziali in termini di raggiungimento, sostenibilità e durata dell'intesa raggiunta. Di contributo delle donne, lessico dei negoziati, importanza della diplomazia come strumento di risoluzione dei conflitti,  e di differenze di genere nella negoziazione abbiamo parlato con   Elena Palloni che attraerso i suoi studi ci ha aiutato ad entrare nel mondo del negoziato al femminile.

Breve biografia
Elena Palloni, Dottore di ricerca in teoria politica e relazioni internazionali, dopo una breve esperienza nel privato, nel 1996 ha iniziato la sua esperienza nel pubblico, operando in tutti i livelli di governo dall’amministrazione locale, presso l’Amministrazione provinciale di Rimini, all’amministrazione centrale, dal 2001 presso il Ministero della Difesa, per arrivare nel 2018 alla Presidenza del Consiglio dei ministri. È ufficiale superiore in congedo della riserva selezionata della Marina Militare Italiana.
Ha svolto numerosi e diversificati incarichi sia in organismi nazionali che internazionali, principalmente nell’ambito della cooperazione internazionale nel campo della difesa, ha poi curato la partecipazione dell’Italia all’Unione Europea, approfondendo il tema della tutela degli interessi strategici e spazio e aerospazio e collaborando alla redazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Attualmente è funzionario esperto in attività internazionali nell’ambito del Dipartimento Pari Opportunità e partecipa, in rappresentanza dell’Italia, ai diversi consessi internazionali. Ha pubblicato diversi articoli in tema di etica, leadership, sicurezza e difesa. Dal 2024 collabora con la Commissione Europea in qualità di esperto indipendente in materia di etica.
L'INTERVISTA
a cura di Francesca Chirico
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Abbiamo intervistato per la Giornata Internazionale delle donne la Dott.ssa Elena Palloni, appassionata ricercatrice dei temi del negoziato che profonde il suo impegno non solo per la ricerca, ma in tante esperienze, fra le quali il Ministero della Difesa e la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
A lei abbiamo chiesto di aiutarci a scoprire il modo in cui le donne negoziano e lo stato attuale della partecipazione delle donne ai negoziati di pace.
1) Iniziamo questa intervista lungi dal cadere nel luogo comune che le donne siano più sensibili, inclini all’ascolto e gli uomini più assertivi e dominanti tale per cui le donne negoziano meglio degli uomini. Convinte che non sia né migliore, né peggiore, ma diversa e che la diversità degli approcci costituisca una ricchezza, le chiedo: quali sono le caratteristiche del negoziato al femminile, quale l'efficacia, le peculiarità e le differenze con quello al maschile?

Innanzi tutto, ti ringrazio tanto Francesca per l’invito sono molto contenta di partecipare per quello che posso a questa discussione su un tema che, come hai detto, mi appassiona da anni.
Partirei con una definizione. La negoziazione è un processo decisionale interpersonale necessari ogni volta che non possiamo raggiungere da soli i nostri obiettivi. Quindi si tratta di una competenza relazionale basata sulla capacità di comunicazione e sulle abilità di saper esercitare influenza sulla presa di decisione. Quali sono le caratteristiche fondamentali nella negoziazione? La comunicazione e la relazione. E da qui veniamo all’assunto che giustamente tu hai ricordato, che donne e uomini comunicano e quindi negoziano in modo differente. Per evitare gli stereotipi, io nelle mie ricerche per analizzare le differenze di genere mi sono basata sul lavoro di Deborah Tannen, che è una specialista linguistica ed esperta nelle differenze di stili di comunicazione; la cui attività ha condotto all’identificazione di modelli generalizzabili delle differenze tra uomini e donne.
Ecco, è emerso come le donne sappiano essere più capaci di ascoltare, di mostrare intuizione ed empatia, mentre gli uomini tendano ad essere più dominanti, siano meno propensi a cogliere i segnali indiretti, ma per converso sappiano poi essere più veloci nell’assumere delle decisioni.
Lo stile di comunicazione è chiaro che influisce sul processo negoziale, perché nelle donne prevale lo scambio con l’interlocutore che si esplicita con brevi inserimenti, domande chiarificatrici che sono utilissime per dimostrare sia la comprensione della questione, sia a riconoscere l’altro.
Venendo agli stili negoziali io mi sono riferita a studi condotti nel processo di pace in Irlanda del Nord che hanno realizzato un modello per comprendere quali sono le abilità e le competenze necessarie per i negoziatori. I risultati non sono sorprendenti dal nostro punto di vista: hanno individuato la capacità d’ascolto e di costruzione del rapporto come le due attività fondamentali; e quindi hanno confermato come tali caratteristiche siano per lo più rinvenibili nelle donne. Come è anche emerso negli studi di Tannen.
Venendo proprio a processi di pace in studi condotti dal Center for Security Studies di Zurigo, è stato confermato come un’abilità fondamentale sia la costruzione delle relazioni e delle connessioni umane e l’ascolto attivo.
Per fare qualche esempio, gli studi di Zurigo hanno indicato quali strategie utilizzate dalle donne al tavolo negoziale l’uso dell’empatia per smorzare le eco al tavolo, le battute per allentare le tensioni e superare le situazioni difficili; ma anche e persino in termini anche ironici, l’utilizzo a proprio vantaggio degli stereotipi delle donne. In ogni caso, quasi universalmente è emerso come la presenza di una donna abbia esplicato un ruolo di collante della squadra aiutando a superare le divisioni e riportando all’unità, in quanto non viene percepita come avversario o come minaccia.
In particolare, tutte le situazioni dove le donne hanno contribuito ad influenzare un processo, il loro portare dentro il personale e l’adozione di approcci guidati da valori, competenze, lavoro di squadra e personalità hanno prodotto notevoli risultati e questo approccio alla leadership, crea anche spazio di manovra all’interno di mandati restrittivi e quindi apre opportunità per approcci e iniziative guidati da personalità e competenze diverse, non è vincolato da strutture rigide e non perpetua le asimmetrie di potere. Vorrei citare come esempio al di fuori dell’ambito strettamente negoziale, Stephen Covey, l’autore di Seven Habits of Highly Effective People, che ha ricordato come il problema più grande nella comunicazione è che ascoltiamo per rispondere e non per comprendere e questo nella negoziazione priva dell’opportunità di raccogliere informazioni che spesso possono essere essenziali per il raggiungimento di un accordo; in particolare in negoziati i cui esiti non sono volti alla soddisfazione di un bisogno immediato bensì mirati a durare nel tempo e quindi a costruire una relazione di medio e lungo termine.
Ecco, le donne sono più portate ad ascoltare per comprendere.

È stimolante e puntuale questo punto di vista, perché si nutre di alcuni elementi scientifici che sono anche sperimentabili ai tavoli negoziali, anche ai piccoli tavoli negoziali ai quali siamo abituati ogni giorno.
È del 2000 la risoluzione n. 1325 dell’ONU “Donne, pace e sicurezza” che ha messo un primo tassello per l’inclusione delle donne nei processi negoziali. La risoluzione evidenzia tutto quello che ti hai detto, come il ruolo delle donne crei una probabilità più elevata di giungere ad un accordo, però nella relazione 2019 sull’agenda “Donne, Pace e Sicurezza” ancora i dati circa la presenza delle donne nelle delegazioni coinvolte nei maggiori negoziati di pace resta poco significativa, forse rispetto all’aspettativa ma anche rispetto ai risultati e agli studi scientifici che tu enucleavi. Come colmare il gender gap nel mondo della negoziazione? E a che punto siamo?

Come giustamente hai ricordato, l’apporto delle donne crea probabilità più elevate di giungere a un accordo, sia per le caratteristiche che abbiamo richiamato ma non solo.
Le donne, partecipando al processo negoziale, hanno un impatto anche sulla probabilità che tale accordo duri nel tempo; quindi, è doppiamente di beneficio la loro inclusione. Tuttavia, è vero che nei processi di pace che hanno avuto luogo fra il 1992 e il 2019 le donne rappresentavano solo il 6% dei mediatori, il 6% dei firmatari e il 13% dei negoziatori. Bisogna però distinguere, perché questi dati si riferiscono in particolare ai negoziati di livello di vertice, quello che viene definito il c.d. track 1 che include politici, dirigenti di alto livello, militari e religiosi.
Per contro, da decenni e in maniera sempre più pregnante, viene riconosciuto il ruolo cruciale svolto dalle donne per la costruzione della pace sia a livello di track 2, ovvero di leadership di medio livello, sia a livello di track 3, ovvero degli attori di base.
Purtroppo, è vero che la decisione riguardo alla composizione della delegazione negoziale di vertice e l’agenda dei processi di pace formali, continua a riflettere dinamiche di potere tradizionali; però è importante riconoscere come sia crescente e sempre più visibile la partecipazione delle donne nei processi di pace in qualità di rappresentanti della società civile.
I benefici dell’inclusione delle donne nei processi di pace oltre alla costruzione qualitativa del consenso, producono anche effetti circa l’ampliamento della prospettiva, l’apporto di informazioni diversificate e, soprattutto, un’accettazione sociale più estesa. L’inclusione delle donne nei negoziati ha evidenziato la loro intrinseca inclinazione a costruire ponti e ricercare il consenso.
Una volta riconosciute queste caratteristiche, peraltro, fa sì che esse vengano apprezzate ancora di più nel contesto negoziale in quanto capaci di un cambiamento trasformativo.
Mentre in teoria, per noi che analizziamo gli aspetti dal di fuori il supporto alla partecipazione delle donne potrebbe anche basarsi esclusivamente su un principio di eguaglianza, in pratica si realizza anche sulla base dell’utilità che le donne possono apportare concretamente ai processi di pace, perché promuovono il dialogo, creano fiducia, colmano costantemente le divisioni, costruiscono coalizioni, apportano prospettive diverse su cosa significhi pace e sicurezza e su come queste possano essere realizzate e contribuendo a una comprensione più olistica della pace che risponde a esigenze a lungo termine e alla sicurezza a breve termine.
Per venire all’ultima parte della tua domanda: è vero, non siamo ancora alla piena inclusione, però le tendenze recenti indicano che è sempre maggiore il numero delle delegate che, sebbene rimanga inferiore a quello degli uomini, comunque è aumentata la presenza femminile nel corso degli anni.

Questo è un problema del quale tu ti occupi anche andando a ritroso nel tempo. Nel libro curato da Francesco Tufarelli e Monica Didò “Negoziato e comunicazione negli anni ‘20”, analizzi quaranta processi di pace dalla fine della Guerra Fredda. Ti sei chiesta quello che dicevi prima e che mi ha colpita molto nei casi che analizzi, non solo quale sia il grado di influenza che le donne apportano nel trovare un accordo di pace, ma quale sia l’influenza che le donne esercitano nel ricercare un accordo che sia sostenibile e duraturo. Questa capacità di una lungimiranza nell’intervento al tavolo dei negoziati che è la cosa che, nella parte che hai curato nel libro, è nuova rispetto agli studi sul tema.
Ci racconti uno dei processi di pace più significativi che analizzi nel libro?

Il contribuito che ho dato al libro Comunicazione e negoziato negli anni 20 l’ho scritto insieme ad un’amica Luisa Sacco che mi piace citare.
Uno dei processi di pace che a me ha più colpito riguarda il ruolo svolto dalle donne a livello di attori di base e l’esempio che mi piace citare è quello del processo di riconciliazione svolto in Kenya tra il 2014 e il 2020.
Forse ricorderai che nel 2014 e il 2015 era alle prese con crescenti attacchi terroristici. Ricorderai sicuramente l’uccisione di 67 persone nel centro commerciale Westgate di Nairobi o l’eccidio terribile di 147 studenti presso l’Università di Garissa per mano degli uomini di Al-Shabaab o di gruppi affini.
Ecco, le donne keniote che assistevano al reclutamento dei loro figli, fratelli o vicini a opera di Al-Shabaab o altri gruppi jihadisti, hanno deciso di unirsi per creare una rete che si chiama Sisters Without Borders, collegando gruppi di donne attiviste presenti nei quartieri delle città focolaio delle attività estremiste e quindi donne di Nairobi, Mombasa, Garissa, di diversa estrazione etnica e politica, grazie al proprio ruolo nella comunità locale, sono riuscite a coinvolgere le proprie comunità dimostrando che erano capaci per prime di individuare quali erano le cause che portavano all’estremismo e di unirsi proprio per aiutare le comunità a prevenire la radicalizzazione e collaborare meglio con le autorità.
In pochi anna Sisters Without Borders ha avuto un impatto notevole, la rete è cresciuta moltissimo, ha organizzato incontri con i leader e i funzionari della comunità per allentare le tensioni e creare consenso su come migliorare la sicurezza di tutta la popolazione, ha condotto workshop per i membri della comunità locale sui fattori scatenanti la radicalizzazione, inoltre, ha organizzato programmi artistici, gruppi di supporto per madri e persino partite di calcio amichevoli fra i giovani e i poliziotti proprio per costruire una maggiore comprensione reciproca e distogliere i giovani dalle idee estremiste.
Ora sia le donne che i giovani interagiscono più liberamente con la polizia e si è creata una maggiore comprensione e accettazione reciproca tra le autorità e i membri delle diverse comunità locali.
Mi piace ricordare quello che ha detto Mariam Hussein, una componente del capitolo di Garissa di Sisters Without Borders, che ha detto le donne sono responsabili della sicurezza in casa e all’interno della comunità, quindi meritano di essere ascoltate e incluse.
Nel 2020 Sisters Without Borders si è espansa in nuove regioni del Kenya come Isiolo, Kisumu, Nakuru e altre e adesso la rete partecipa anche alle consultazioni per la definizione delle politiche nazionali per la sicurezza.

È un esempio straordinario di quegli attori di base di cui parlavi prima e delle tante donne di cui chiacchieravamo prima di iniziare l’intervista. Questo è molto incoraggiante perché ci restituisce un desiderio di pace, un anelito che è insito nel cuore dell’uomo, anche se in questo momento stiamo assistendo ad un depotenziamento della diplomazia. I negoziati di pace in diretta dallo studio ovale in una modalità assolutamente atipica, i toni apocalittici, richiami religiosi: così il lessico trumpiano diventa un’arma politica globale, questa nuova retorica della guerra che mina il modello culturale della comprensione con il conflitto. Tu che impressione hai avuto dalle immagini che abbiamo potuto guardare dai media?
Le impressioni personali le lascio al di fuori di questa discussione. Le impressioni da ricercatrice sono che Trump, da immobiliarista, da venditore, adotta lo stile negoziale che conosce: cioè quello utilizzato nelle vendite una tantum che è definito negoziato di posizione o negoziato a somma zero e che, seppur può essere utile in determinate circostanze ovvero situazioni in cui è improbabile che le parti possano incontrarsi in futuro, in circostanze complesse a mio avviso è del tutto inadeguato e anche controindicato, in quanto si basa su rapporti di forza e si chiude con un esito parziale: c’è un vincitore e un vinto.
Il negoziato a somma zero, per propria tipologia, compromette la qualità della relazione con la controparte, perché mortificare con una sconfitta una persona con cui si intrattengono sistematicamente rapporti negoziali equivale a pregiudicarsi il successo in avvenire, ed anche la sostenibilità dell’accordo raggiunto.
L’alternativa a questo metodo è conosciuta come negoziato di principi, ed è stata ideata dai fondatori del programma sul negoziato di Harward, quindi sempre Stati Uniti, Roger Fischer e William Ury.
Nel negoziato di principi, l‘obiettivo consiste nel risolvere un problema insieme alla controparte.
Quindi occorre costruire il consenso e per costruire il consenso, occorre saper trovare un terreno comune su cui basarsi per creare un clima di fiducia. È molto più facile muoversi da un accordo a un altro accordo che da un disaccordo a un accordo.
Prima di affrontare le aree di divergenza è opportuno individuare un punto fermo da cui partire.
Abbiamo detto che un buon negoziatore deve essere un osservatore acuto, un ascoltatore attento, un comunicatore efficace; un’accorta osservazione dell’altro permette di percepire i segnali verbali e non verbali e di interpretarli a secondo della situazione. L’ascolto attivo dà l’opportunità di comprendere al meglio l’interlocutore. Il negoziatore deve anche saper assumere un atteggiamento empatico che gli consenta di venire incontro alla controparte in modo costruttivo, ricercando quel comune denominatore su cui fondare il negoziato. L’adozione di un atteggiamento empatico assume un’importanza cruciale nel negoziato, ma mi piace sottolineare che studi recenti hanno individuato nell’empatia un’abilità fondamentale anche in ambito aziendale che a via via risalito la scala delle priorità fino ad essere considerata la capacità cruciale in un leader.
Le ricerche hanno mostrato come tale atteggiamento, l’empatia, abbia effetti positivi su svariati ambiti: dall’innovazione alla fidelizzazione, al coinvolgimento del personale, influenzando in positivo le performance aziendali.
Quindi non aggiungo altro, se non una battuta: non è sorprendente che in passato Trump abbia avuto vari fallimenti nelle sue aziende.

Tu parlavi prima di empatia che sembra la grande assente di questi negoziati.
Citavi William Uri, ma mi viene in mente Friedman con il metodo della mediazione attraverso la comprensione e quella compassion di Jung che tradotta i italiano include anche il rispetto e l’attenzione la capacità di riconoscere profondamente le proprie ferite e anche quelle dell’altro per curarle allo stesso modo: ora, è chiaro che i negoziati di pace in corso, quello tra l’Ucraina e la Russia e quello tra Israele e il mondo palestinese che è atipico, perché è un poliedro di situazioni, non è un monolite è una negoziazione molto complessa, è ovvio che ci sono dentro talmente tanti interessi che pensare alla compassione, alla comprensione, al curare le ferite dell’altro, è impossibile.
Come si fa a rimettere al centro la diplomazia come strumento di risoluzione dei conflitti?
Rispondo, Francesca, con una provocazione perché ti cito Von Clausewitz.
Visto che parliamo di guerra e visto che comunque ho dei trascorsi nell’ambito del Ministero della Difesa e sono anche un ufficiale di Marina della Riserva, Von Clausewitz fa parte anche dei miei riferimenti.
Proprio Von Clausewitz, che non è tacciabile di essere un progressista, diceva che la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi e lui stesso sottolineava che è la politica che fissa gli obiettivi da raggiungere e che la guerra resta un’eventualità da valutare come eccezione al perseguimento di tali obiettivi con le modalità ordinarie; in questo senso la guerra è una manifestazione del fallimento della diplomazia, quindi della politica.
La risposta è: per questo è importante che noi, come donne, con le nostre caratteristiche dobbiamo continuare a promuovere il dialogo e il negoziato come soluzione dei conflitti.
 
     
     
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