Abbiamo chiesto al professor
Emmanuel Decaux, presidente della Corte di
Conciliazione e Arbitrato dell'Osce che ha sede a
Ginevra e si occupa della composizione pacifica delle
controversie tra Stati, di ragionare con noi sull'attuale situazione
internazionale, sulla necessità di pacificazione e riparazione
attraverso la mediazione e abbiamo allargato lo sguardo ai
grandi temi dell'equità, della pace e dei diritti umani.
Un privilegio aver raccolto i pensieri di un infaticabile
costruttore di pace e dialogo.
Breve biografia
Professore emerito dell'Università di Parigi II –
Panthéon-Assas, ha insegnato diritto internazionale pubblico e
diritto internazionale dei diritti umani. Presidente della
Fondazione René Cassin – Istituto Internazionale dei Diritti
Umani.
Ha insegnato all'Università Sapienza di Roma come professore
visitatore, tenendo corsi nel 1990, 1995, 2005 e 2008. Alla
Sapienza ha ricevuto il premio Human Rights Sapienza Award
2014, per il contributo unico alla promozione e tutela dei
diritti umani.
Ha pubblicato su temi di diritto internazionale pubblico e
organizzazioni internazionali, con particolare attenzione alla
risoluzione pacifica delle controversie e ai diritti umani. È
anche membro dell'Advisory Board della pubblicazione Security
and Human Rights Monitor .
Ha ricoperto diverse funzioni all'interno delle Nazioni Unite:
membro della Sottocommissione per la promozione e la protezione
dei diritti umani, membro del Consiglio consultivo dei diritti
umani e presidente del Comitato sulle sparizioni forzate tra il
2011 e il 2019.
Decaux ha inoltre partecipato come membro della delegazione
francese a tre riunioni della Conferenza sulla dimensione umana
(1989-1991) e alle prime riunioni sull'attuazione della
dimensione umana organizzate dall'Ufficio OSCE per le
istituzioni democratiche ei diritti umani a Varsavia.
Successivamente è stato nominato esperto nell'ambito del
Meccanismo di Mosca sulla Dimensione Umana per conto del quale
ha agito due volte (nel 2003 e nel 2011) come Relatore. |
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L'INTERVISTA |
a cura di Francesca Chirico |
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interviste |
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Grazie al suo straordinario contributo per la
promozione e la tutela dei diritti umani nel corso della sua
carriera accademica e professionale nelle varie sedi in cui
ha operato, è stato chiamato a presiedere uno degli
organismi più importanti dell’OSCE: la Corte di
Conciliazione e Arbitrato.
Intanto la ringrazio
per l’interesse. Nell’introdurmi, lei afferma che la Corte è
una delle istituzioni più importanti dell'OSCE, e questo è
indubbiamente vero, soprattutto nello spirito dei padri
fondatori della Corte, che l'hanno immaginata come la
consacrazione del principio della pacifica risoluzione delle
controversie nel quadro della “nuova Europa”; per menzionare
il titolo della Carta di Parigi del 1990.
Bisogna però aggiungere che la Corte è anche la meno
conosciuta delle "istituzioni e strutture dell'OSCE". Questo
contrasto è emerso - e ci ha molto fatto riflettere - quando
abbiamo capito che gli Stati ricorrevano, con alterne
percentuali di successo - altri mezzi amichevoli di
risoluzione delle controversie: penso alla convenzione
arbitrale stipulata da Croazia e Slovenia nel 2009 e decisa
nel contesto di una crisi nel 2017; o anche alla contesa tra
Germania e Italia, già processata nel 2012, che è sottoposta
nuovamente alla Corte Internazionale di Giustizia nel 2022;
o, ancor peggio, quando ci si accontenta temporaneamente di
“nascondere la polvere sotto il tappeto” alimentando i
cosiddetti “conflitti congelati”, senza cercare soluzioni
durature.
Oggi, dopo la guerra del 2008 tra Georgia e Russia e la
guerra del 2014 tra Russia e Ucraina, dal febbraio 2022
viviamo un attacco militare su larga scala che minaccia i
principi delle Nazioni Unite e i fondamenti dell'OSCE, a
partire dal divieto di minaccia o dell'uso della forza, dal
rispetto della sovranità e dell'uguaglianza degli Stati,
della loro indipendenza politica e della loro integrità
territoriale fino all'applicazione in buona fede dei
trattati e l'impegno per la composizione pacifica delle
controversie.
Basta questo per dire che l'attualità deve renderci tutti
umili. Questo fallimento non è il fallimento delle
istituzioni OSCE, è innanzitutto quello degli Stati
partecipanti.
Vuole spiegarci bene come funziona il
meccanismo di conciliazione fra gli Stati e cosa produce la
commissione al termine della conciliazione?
La peculiarità della Convenzione di Stoccolma del 1992
risiede nella creazione di una Corte con due rami: da un
lato, una procedura di conciliazione obbligatoria per gli
Stati firmatari del trattato, e dall'altro, una procedura
arbitrale che rimane facoltativa, sulla base di una
dichiarazione volontaria di accettazione della propria
competenza o di un accordo ad hoc tra due parti.
Il metodo della conciliazione è più recente di quello
dell'arbitrato, che ha già una lunga storia di “passaggio”
dall'arbitrato politico, messo in atto da un sovrano,
all'arbitrato legale, gestito da esperti indipendenti.
La conciliazione iniziò un secolo fa, dopo la Prima guerra
mondiale, con i trattati bilaterali, in particolare su
iniziativa della Svizzera. L'interesse della Corte è quello
di fornire un quadro istituzionale, multilaterale e
permanente a questi sforzi, mediante un elenco di
conciliatori messi a disposizione degli Stati.
Ciò che rende unica la procedura è la sua flessibilità,
trasparenza e riservatezza. Quando la Corte riceve una
richiesta di conciliazione, istituisce una commissione di
conciliazione, composta da un conciliatore per ciascuno dei
due Stati in lite e da tre conciliatori neutrali nominati
dall'Ufficio di presidenza della Corte.
Vanno sottolineate due caratteristiche originali della
procedura. Lo scopo della conciliazione è assistere le parti
nella ricerca di una soluzione in conformità con il diritto
internazionale e gli impegni dell'OSCE (articolo 24).
Se durante il percorso viene trovata una soluzione
"reciprocamente accettabile", viene formalizzata in un
accordo che sancisce il successo della conciliazione.
In caso contrario, spetta alla Commissione formulare delle
proposte contenute in una relazione finale che entrambi gli
Stati hanno trenta giorni di tempo per accettare o
rifiutare. In caso di impasse, il rapporto viene trasmesso
agli organi dell'OSCE e la situazione viene cristallizzata.
La caratteristica essenziale della conciliazione è la natura
non vincolante della soluzione proposta, a differenza
dell'arbitrato, dove il lodo arbitrale ha portata
vincolante.
La conciliazione ha lo scopo di trovare una
composizione pacifica delle controversie tra Stati,
sottoponendo proposte di accordo agli Stati che sono parti
di una controversia. Ci fornisce qualche esempio?
Ci sono esempi classici che sono
stati individuati in una tesi pubblicata nel 1968 da
Jean-Pierre Cot e recenti successi, come nella conciliazione
tra l'Australia e Timor Est che ha portato nel 2017 a un
accordo globale, nell'ambito della Corte Permanente
dell'Arbitrato.
Anche se la terminologia è a volte informale e il metodo è
più vicino all'arbitrato che alla conciliazione, giova
ricordare il successo tecnico delle commissioni di
conciliazione bilaterale del dopoguerra, come la
"Commissione franco-italiana di conciliazione", istituita
dal trattato di pace del 1947.
La Corte ha recentemente pubblicato due libri di riferimento
sul tema della conciliazione nella sua pratica attuale,
comprese le recenti esperienze dinnanzi agli organi delle
Nazioni Unite, come il Comitato per l'eliminazione della
discriminazione razziale. Infine, come non ricordare il
ruolo sempre più importante della conciliazione nelle
procedure interne, in particolare nell'ambito della
riparazione?
La necessità di ricorrere a un terzo imparziale si rende
immediatamente necessaria quando i negoziati bilaterali sono
in stallo per mancanza di concessioni e quando il
contenzioso rischia di cristallizzare gli antagonismi.
La conciliazione offre questo spazio neutrale per cercare di
trovare soluzioni di compromesso, nel rispetto della legge e
senza perdere la faccia.
Lei ha definito la Corte come una “cassetta
per gli attrezzi” a disposizione degli Stati: quali attrezzi
servono per prevenire e risolvere i conflitti?
È nella fase di prevenzione e di
"early warning" che gli strumenti della Corte sono più
utili. Si tratta di rimuovere pazientemente le questioni
controverse, invece di lasciare che si accumulino e
peggiorino.
La risoluzione pacifica delle controversie, come suggerisce
il nome, implica la speranza di rapporti di buon vicinato e
di un macro contesto di pace.
Da tempo, il diritto internazionale distingue tra
controversie politiche e controversie legali. È pur vero che
qualsiasi controversia legale ha un background politico e,
parimenti, qualsiasi crisi politica interessa questioni
legali; mi sembra però che la giurisdizione possa
intervenire solo marginalmente, e si possa parlare di
diritto in senso stretto, intendendo di portare avanti
missioni conoscitive e investigative, acclarare circostanze,
ascrivere responsabilità, provvedere a riparare, promuovere
la ricostruzione e la riconciliazione.
Ma il diritto non può sostituire la diplomazia nella
risoluzione delle crisi aperte.
Nonostante questi limiti, i meccanismi offerti dalla Corte
di Conciliazione e Arbitrato conservano tutta la loro
efficacia potendo favorire la ricerca di soluzioni, senza
tagliare il nodo gordiano, ma con pragmatismo, facendo della
legge una bussola.
Nel 2008 lei ha tenuto un Corso all'Accademia
di diritto internazionale dell'Aia sul tema attualissimo
delle "Forme contemporanee della schiavitù". La nostra
città, sulle rive del Mediterraneo, è in prima linea per
l’accoglienza dei migranti provenienti dall’Africa e dal
Medio Oriente. Lei ha inteso il diritto come strumento al
servizio della dignità dell'uomo, ritiene che l’Europa possa
fare di più nell’accoglienza? Molto spesso sentiamo dire,
anche da alcuni esponenti politici: “Aiutiamoli a casa
loro!”. Ma a ben guardare, una casa non c’è più, perché rasa
al suolo dalle bombe: l’accoglienza è una questione
fondamentale per garantire la pace?
Dal mio corso all'Accademia dell'Aia tenuto nel 2008, ho
percezione che ad oggi il dibattito relativo alla tratta
degli esseri umani si sia intensificato con forme e fenomeni
diversi legati alla migrazione.
In Commissione ho potuto riscontrare che per quanto concerne
le sparizioni forzate e il fenomeno delle persone scomparse,
sia in America Latina che in Africa che nel Mediterraneo,
gli stessi migranti spesso cadono vittime di tratta per mano
di trafficanti o narcoterroristi.
Conflitti come quelli in Afghanistan, Siria e Libia stanno
creando nuove ondate di sfollati, esiliati e richiedenti
asilo. Come sapete, a seguito della Dichiarazione di New
York del 19 settembre 2016, adottata all’unanimità
dall'Assemblea Generale, i membri delle Nazioni Unite nel
2018 si erano adoperati per creare un quadro globale
mediante il "Patto globale sui rifugiati", gestito
dall'UNHCR, e il "Global Compact for Safe, Orderly and
Regular Migration", il Marrakech Compact, che purtroppo ha
suscitato molte polemiche, perché venutosi a inserire in un
contesto internazionale già parecchio deteriorato.
Ciò che va sottolineato è l'importanza di un approccio
globale con una visione a 360 gradi che mobiliti tutti gli
attori, con uno sforzo di coordinamento rafforzato affidato
all'International Organisation for Migration.
La situazioni di crisi - come ad esempio la guerra in
Ucraina che ha creato milioni di sfollati interni in fuga
dalle zone di combattimento o di esuli - costituiscono una
nuova sfida per i paesi vicini che hanno avuto la necessità
di creare zone di accoglienza per un numero consistente di
sfollati, mentre la Convenzione di Ginevra del 1951 fa
riferimento solo all’asilo individuale.
C'è da sperare che il raggiungimento della pace permetta
alle famiglie di ricongiungersi e la ricostruzione del
proprio Paese; purtroppo, in molti casi, davanti a "Stati
falliti" c’è bisogno di uno sforzo maggiore per promuovere
lo sviluppo sostenibile e una democrazia inclusiva che sia
su lungo termine. In mancanza di questi due fattori,
prevarrà l’attrattiva nei confronti dell’Europa vista come
terra di libertà. L’esempio dell'Afghanistan, con la
terribile situazione delle donne, deve servire da lezione.
Il discorso meriterebbe una lunga
riflessione, le chiediamo solo se la mancanza di equità e
giustizia sia una forma di conflitto?
Sì, la mia opinione è che diversi conflitti latenti,
potremmo definirli di bassa intensità, dovrebbero essere
attenzionati con un approccio più incisivo, invece di un
approccio più attendista che aspetta che esplodano le crisi,
che a volte, poi, che sfociano in violenze. Tanto più che
intervenire nel momento in cui si manifesta l’urgenza o in
una situazione di emergenza risulta decisamente più
complesso.
La Corte ha competenza solo per le controversie
interstatali, ma anche in questo contesto possiamo collocare
l'equità accanto alla giustizia, anzi, se entrambi gli Stati
lo desiderassero, la Convenzione di Stoccolma prevede la
possibilità di intervenire mediante l’arbitrato.
È vero che i diplomatici hanno spazio di manovra
nell’interpretare la legge, ma troppo spesso, o per mancanza
di visione o di volontà, gli stessi funzionari lasciano che
la situazione si deteriori.
Un vecchio adagio della politica francese asserisce che "non
c'è problema che una mancata soluzione non possa risolvere".
Uno sbaglio! Questa è la politica dello struzzo. Certo,
dobbiamo avere delle priorità ed evitare di intraprendere
battaglie perse, ma dobbiamo anche offrire prospettive più
nitide non trascurando gli avvertimenti e non cedere al
senso di sopraffazione davanti al problema; dobbiamo
soprattutto non umiliare i popoli.
La Francia in conformità alle raccomandazioni
contenute nella risoluzione dell'Assemblea generale dell'ONU
n. 134 del 20 dicembre 1993 sulle istituzioni nazionali per
la protezione e la promozione dei diritti umani (i Principi
di Parigi), ha creato la Commissione consultiva francese per
i diritti umani di cui lei è stato promotore. Potenzialità e
limiti di questo strumento?
Sono stato membro per 30 anni della Commissione consultiva
nazionale sui diritti umani (Commission nationale consultive
des droits de l'homme - CNCDH), che mi ha permesso di
assistere alla nascita e allo sviluppo della rete delle
Istituzioni Nazionali dei Diritti Umani (Istituzioni
nationales des droits de l'homme – INDH), in occasione della
Conferenza Mondiale sui Diritti Umani tenutasi a Vienna nel
1993.
Da allora la rete è stata strutturata e diversificata
all'interno di un'Alleanza Globale (GANHRI) riconosciuta
come attore nel suo ambito, e questo inizialmente non era
assolutamente scontato!
Il rischio di una tale consacrazione, però, è di diventare
una forma di burocrazia sempre più farraginosa, il che
farebbe perdere lo spirito iniziale in cui tutte le
componenti della rete erano coinvolte in maniera del tutto
indipendente.
Crede che esista un diritto alla pace?
L'aspirazione a un mondo libero “dalla povertà e dal
terrore” è alla base della Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani, che afferma nel suo primo preambolo che il
riconoscimento dei diritti umani “costituisce il fondamento
della giustizia e della pace nel mondo”.
In altre parole, esiste uno stretto legame tra democrazia e
pace, diritti umani e giustizia. Dobbiamo andare oltre e
parlare di "diritto alla pace" designando detentori e
debitori di questo nuovo diritto?
Qui entriamo in un dibattito politico, i cui difetti ho
potuto vedere nell'agenda del Comitato consultivo del
Consiglio per i diritti umani.
Se guardiamo agli Stati, il quadro migliore resta la Carta
delle Nazioni Unite che comporta responsabilità collettive
per il mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale, anche nel campo del disarmo. Trasformare i
principi fondamentali del diritto internazionale in “diritti
umani” individuali o collettivi, a mio avviso, non
porterebbe a nulla.
L'unica base su cui avrebbe senso un diritto individuale
alla pace è nel riconoscimento dello status di obiettore di
coscienza, argomento su cui le ONG, come il movimento dei
Quaccheri, sono sempre state in prima linea. Un altro
approccio particolarmente utile è quello dell'educazione e
della cultura della pace che è nello spirito dell'articolo
26 della Dichiarazione Universale, che mira a “promuovere la
comprensione, la tolleranza e l'amicizia tra tutte le
nazioni (...) nonché lo sviluppo delle attività delle
Nazioni Unite per il mantenimento della pace”.
Questo è un largo campo di azione e riflessione, di fronte
alla propaganda guerrafondaia, al revisionismo e
all'incitamento all'odio. Richiede anche una visione comune
della storia, della storia europea e della storia mondiale.
È meglio dedicarsi alle "condizioni di pace" attraverso
l'educazione e la cultura, la promozione dello Stato di
diritto o l'attuazione degli Obiettivi di Sviluppo
Sostenibile, che all'instaurazione di un diritto teorico,
senza entrare in rapporti di potere e anche rischiando di
essere marginalizzati, come abbiamo visto accadere visto al
movimento pacifista durante la guerra fredda.
Nel suo infaticabile impegno per la pace e i
diritti umani è stato nominato membro della
Sotto-Commissione per la protezione e la promozione dei
diritti umani dell'ONU e rapporteur su due temi
fondamentali: l'amministrazione della giustizia da parte dei
tribunali militari internazionali e l'applicazione
universale dei trattati internazionali sui diritti umani.
L’OSCE si è recentemente espressa sulla situazione in
Ucraina e sui presunti crimini commessi dall’esercito russo.
Qual è la reale situazione del conflitto?
Sono certo capirete che non commento nel dettaglio la
situazione attuale, posso dire che molte inchieste
internazionali sono già state svolte. È il caso dei tre
relatori del Meccanismo di Mosca per la dimensione umana che
hanno presentato la loro relazione il 13 aprile 2022. C’è
poi la commissione d'inchiesta istituita dal Consiglio per i
diritti umani, per non parlare dell'indagine avviata dal
procuratore della CPI. Inoltre, le controversie interstatali
sono pendenti sia dinanzi alla Corte di giustizia
internazionale che dinanzi alla Corte europea dei diritti
dell'uomo.
In tutti i casi, è essenziale che i crimini internazionali
commessi, compresi i crimini di guerra e i crimini contro
l'umanità, siano indagati e perseguiti in modo indipendente
e imparziale, indipendentemente dagli autori. Ciò vale,
ovviamente, per tutte le parti in conflitto. In definitiva,
i principi di verità, giustizia e riparazione, con il
“diritto alla non ripetizione” individuato da Louis Joinet,
quale Relatore speciale della Sottocommissione per i diritti
umani, conservano ancora tutta la loro la loro valenza e
sono pienamente di attualità.
La cultura della violenza e dell'impunità racchiude è oggi
semina per il germogliare delle tragedie del futuro. Anche
qui: devi affrontare la storia.
Un'ultima domanda Professor Decaux. Il suo
impegno per la causa dei diritti dell'uomo si è realizzato
in primo luogo attraverso l'insegnamento e la ricerca
scientifica. Lei è un educatore, le chiediamo qual è il
ruolo delle università nella causa della pace? Come si fa a
formare gli studenti per diventare operatori di alto livello
con ampia prospettiva internazionale?
Per me, insegnamento e impegno
come esperto indipendente sono inseparabili. Teoria e
pratica si alimentano a vicenda, ma ovviamente bisogna
evitare di mischiare gli aspetti: fare il professore nelle
trattative internazionali e impegnarsi nell'attivismo a
lezione!
A Nanterre come all’Università Parigi II, ho avuto la
possibilità di insegnare in centri di ricerca
all'avanguardia e di tenere corsi di specializzazione
post-laurea con studenti e dottorandi di molti paesi
stranieri, il che è stato per me un allargamento
intellettuale, così come per tutti i corsi fatti in giro per
il mondo.
Ricordo oggi con particolare nostalgia i corsi tenuti al
French University College (CUF) di Mosca e San Pietroburgo.
Se ho qualche consiglio da dare agli studenti appassionati
di questi temi, non è quello di separare i diritti umani dal
diritto internazionale, dobbiamo avere una base generalista
per passare dall'istruzione alle sparizioni forzate, dal
diritto dei contadini senza terra alla giustizia militare.
Questa è stata la grande lezione appresa nella
Sottocommissione, dove temi nuovi ed essenziali –
popolazioni indigene, difesa dei diritti umani, povertà
estrema, terrorismo, corporazioni transnazionali – venivano
affrontati quotidianamente con esperti particolarmente
competenti di tutti gli aspetti della vita.
Ciò significa, ovviamente, avere una buona base giuridica e
una conoscenza psicologica delle regole, ma soprattutto
saper ascoltare gli altri, creare un clima lavorativo di
fiducia, anche con gli "avversari" essere fedeli ai propri
principi e avere empatia con le vittime.
Il miglior apprendistato per uno studente è fare tirocini
presso ONG o missioni diplomatiche, andare sul campo senza
dimenticare che è necessario acquisire i titoli (che si
tratti di una tesi di dottorato o dell’abilitazione al alla
professione forense) per garantire la propria indipendenza
intellettuale. Questo è ciò che continuo a fare nell'ambito
della Fondazione René Cassin, creata dal grande giurista
francese dopo la consegna del Premio Nobel per la Pace
assegnatogli nel 1968. Nella fondazione lavoriamo avendo a
mente il vecchio ideale della "pace attraverso il diritto"
declinandolo per le generazioni future, offrendo sessioni
specializzate a Strasburgo e nel mondo.
Nella presentazione del Rapporto delle attività della Corte
per il 2021 lei ha detto che a trent'anni dall'adozione
della Convenzione di Stoccolma, l’attività della Corte non
appartiene al mondo di ieri, ma offre soluzioni per
costruire l'Europa di oggi, un’Europa pacifica. Nel nostro
piccolo anche noi dirimiamo i piccoli conflitti quotidiani e
mentre soffiano i venti di guerra, insieme a lei ci
auguriamo che il lavoro degli arbitri e dei conciliatori
possa diffondere una cultura di pace dai piccoli ai grandi
tavoli negoziali. Grazie per il suo lavoro. |
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