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Nel riacuirsi della questione israelo-palestinese con il terribile attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ai kibbutz al sud di Israele e la feroce risposta del Governo israeliano a Gaza abbiamo provato ad aprire un focus sul conflitto insieme a Lorenzo Cremonesi, inviato speciale del Corriere della Sera e profondo conoscitore del Medio Oriente.
A Cremonesi, che si trova sul campo, abbiamo chiesto la situazione attuale e i possibili sviluppi, in questa escaletion che rischia di coinvolgere tutta l'area.
Lo abbiamo strappato alle dirette per provare a capire quali sono gli spiragli di pace che appaiono davvero pochi in questo momento. Ci siamo dati appuntamento a breve, nella speranza di poter raccontare non del campo di battaglia, ma del tavolo dei negoziati di pace.

Breve biografia
Lorenzo Cremonesi (Milano, 1957), giornalista e scrittore.
Laurea in Filosofia che gli consente di raccontare i conflitti con l'occhio attento del cronista e con l'introspezione e la profondità dell'umanista.
Segue dagli anni settanta le vicende mediorientali. Dal 1984 collaboratore e corrispondente da Gerusalemme del Corriere della Sera. Nel 1991 si occupa dell'Iraq allargando la sua sfera di competenza alle maggiori vicende dell'area, dall’Afghanistan, all'India, al Pakistan. Ha scritto diversi volumi sulla questione palestinese fra i quali Le origini del sionismo e la nascita del kibbutz (1881-1920) e Guerra infinita - Quarant’anni di conflitti rimossi dal Medio Oriente all’Ucraina, da cui abbiamo tratto la frase di copertina.

«Sono vissuto a lungo nei conflitti, tra i soldati al fronte, più ancora con le popolazioni colpite, negli ospedali, assieme ai profughi, cercando di comprendere le loro ragioni e spiegarle. Intanto in Europa si magnificava il nostro come uno dei periodi più pacifici nella storia. Ma, come vediamo oggi in Ucraina, la guerra è sempre parte di noi e l’avevamo solo rimossa».
L'INTERVISTA
a cura di Francesca Chirico
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L’impressione che abbiamo da osservatori esterni è che questa escalation sia diversa dalle altre? È così?
Questo è un conflitto antico, probabilmente è uno dei conflitti più studiati. Lei sa quanti titoli sono usciti, in quante lingue sulla questione Israelo-Palestinese?
Ci sono professori, istituti di ricerca e università che ci hanno costruito intere carriere, intere vite su questo conflitto. Quindi, veramente è stato studiato, esaminato nelle origini, nelle radici antichissime.
Detto questo, ha degli elementi di permanenza, di continuità e poi degli elementi di novità oppure di modificazione di elementi già preesistenti.
I semi erano già lì e poi lo sviluppo segue una sua dinamica che non è così stupefacente come può apparire specialmente a noi che siamo molto figli di questa civiltà del momento legata ai nostri sistemi di media che rende tutto clamoroso, tutto fantastico, tutto eccezionale.
Non crediamo mai quando dicono “per la prima volta”, non è mai la prima volta. Generalmente chi dice “per la prima volta” è un ignorante che non sa che prima c’erano “altre volte”, non dico uguali, ma simili.
Questa particolare fase del conflitto si avvita su un momento di grandi fallimenti; i fallimenti che caratterizzano le grandi speranze degli anni 90.
Questa è una generazione nuova di persone fra i 25 e i 30 anni che sono, nate al momento del Processo di Oslo, preparati dalla crisi della Guerra del ’48, del '67, del 73, dell’Intifada, perché noi siamo un po’ tutti sotto l’ombra dell’Intifada del 1987.
Ma perché dico che arriva in un momento di delusione?
Il momento della grande speranza è stato all'inizio degli anni ‘90 con gli accordi di Oslo, quando si pensava in modo abbastanza ragionevole alla partizione della terra fino ad arrivare un compromesso; le violenze c’erano già state, non dico uguali, ma gravi, gravissime con migliaia di morti, di guerre, ma si arrivava al momento in cui si apriva il dialogo. Questo dialogo era seguito alla grande Intifada palestinese nei territori occupati che rilanciava tutta la questione Palestina e anche allora si disse che l’Intifada rimetteva sul tavolo del Medio Oriente la questione palestinese.
Poi ci fu il grande fallimento dovuto alla crescita degli estremismi; in particolare l’estremismo islamico.
Nel 1979 poco prima degli accordi di Camp David arriva Khomeini in Iran, ci fu la crescita dei Fratelli Musulmani e quindi il mondo sciita in subbuglio (che vuol dire anche Libano, che vuol dire hezbollah) e nel contempo c’è l’elemento sunnita con Al Qaeda che arriverà nel 2011 e infine Hamas.
Il momento di grande speranza dell’idea della partizione della Terra viene tarpato da due grandi fatti.
Il primo è quello della morte di Rabin avvenuta per mano non di un estremista arabo, l’incubo degli israeliani di tutto il mondo sino ad allora, ma da parte di un estremista ebreo, Yigal Amir, un figlio di questa terra, un ebreo religioso che è molto caratteristico di questa nuova generazione.
C’era un estremismo israeliano che cresceva e che era un estremismo non nazionalista ma molto religioso, un miscuglio drammatico di religiosità e nazionalismo e che poi è esploso con la crescita esponenziale dei territori occupati. Le persone che allora sostenevano Yigal Amir negli anni, specialmente negli ultimi anni, sono andate a sedere in Parlamento, addirittura al Governo di Benjamin Netanyahu.
Non dimentichiamo mai che oggi siedono in Parlamento e al Governo delle persone che trent’anni fa sostenevano Yigal Amir - erano isolati, oggi sono gran parte del consenso - e hanno questa idea di negazione della divisione della terra.
Solamente che, come diceva Amos Oz gli opposti estremisti si alimentano a vicenda e dall’altra parte c’è l’estremismo islamico regionale, il fenomeno qaedista, Al Qaeda, Bin Laden e poi la guerra d’invasione dell’Iraq che genera in modo esponenziale l’estremismo sunnita degli ex baathisti in Iraq e la contrapposizione con l’Iran e nel 2000 la crescita del Califfato, l’Isis. Tutto questo si riverbera sui palestinesi e raggiunge anche Hamas che è un movimento islamico nato con l’Intifada che però preesisteva ed era legato ai Fratelli Musulmani. Alle elezioni del 2006 un anno dopo la decisione di Ariel Sharon di abbandonare Gaza, vince, quindi arriva al potere in modo democratico, con una maggioranza della popolazione che lo sostiene.
Tutto questo ci porta fino ad oggi: davanti al congelamento della questione palestinese che ha visto vampate importanti, c’è una certa continuità; la cosa eccezionale sono le dimensioni del fenomeno, perché la violenza dell’attacco del 7 ottobre contro gli insediamenti, i kibbutz, la cittadina di Sderot, i 1.400 morti, i più di 200 ostaggi, è senza precedenti ed è veramente gravissimo.
È una violenza che nelle modalità ha visto un suo crescere, ma come è normale in guerra ognuno fa la sua propaganda e non ci deve stupire che Netanyahu parli di un Isis/Hamas, che non è vero. Hamas ha degli aspetti jihadisti, ma Hamas si inserisce nella storia della resistenza palestinese e arriva a questo momento di picco.
Ho cercato di dare una piccola continuità con questa disarmonica degli elementi e dei suoi alti e bassi: momento di pace, reazione alla pace, estremismo ebraico contro il compromesso territoriale, estremismo islamico legato all’ambiente in cui tutto questo sta avvenendo, l’influenza di Isis sui giovani di Gaza (non dimentichiamo è gente che è chiusa dentro in questa striscia di terra sigillata. È interessante guardare le foto dei militanti che sfondano la rete e di questi ragazzini che si affacciano stupefatti e vedono in questi giovani che moriranno poco nelle grandi battaglie attorno ai kibbutz dove fanno scempio di tutto quello che trovano (secondo gli israeliani ne muoiono fra i 1.000 e i 1.500) degli eroi perché sono quelli che gli aprono le reti; e purtroppo, è così.
Io aggiungerei solo una nota a questa mia brevissima carrellata di eventi. Purtroppo dopo che forze opposte, ma simili nel loro intendimento di bloccare i negoziati, uccidono l’opzione politica si riapre l’opzione militare.
Noi stiamo vedendo una regola basilare della scienza politica, se tu non ti dai un tentativo di mediazione razionale, ragionevole, di compromesso dove c’è un conflitto reale – e qui c’è un conflitto reale di occupazione della terra e tutto quello che abbiamo detto – a un certo punto scoppia la violenza, che un giorno si ammanterà di violenza marxista, di rivoluzione del proletariato, un’altra socialista, un’altra coloniale, fino ad essere jihadista come è oggi.

Lei diceva prima la soluzione della terra, la divisione dei due Stati; forse parte da qui il fallimento della mediazione.
A chi è stato in Palestina e ha visto la Cisgiordania e i territori occupati, sembra impercorribile oggi la soluzione dei due Stati. Perché, banalmente, è troppo frammentato il territorio. Come si fa a rimandare indietro i coloni, come si fa a ipotizzare i due Stati. O forse l’unica soluzione è quella della convivenza.
Arrivati a questo punto di Gaza forse non resterà più nulla, gli israeliani entreranno, ci saranno altri profughi che non torneranno più nella loro terra. Lo chiedo a lei: due Stati è una via percorribile attualmente?
Io l’ho detto in questi giorni dopo aver vissuto 23 anni qui e aver visto la crescita delle colonie. Quando ero qui i coloni erano circa 50.000, oggi sono 500.000 in Cisgiordania e più 230.000 a Gerusalemme; quindi, si tratta di accettare questa divisione che gli israeliani impongono.
Subito dopo la Guerra dei sei giorni, il Governo israeliano di unità nazionale decise di annettere Gerusalemme est e c’era il dibattito di cosa fare del resto dei territori occupati, compresa Gaza.
Allora la divisione dei due Stati era ancora possibile. Io ricordo persone come Meron Benvenisti, un grandissimo studioso di questa terra, Amos Oz, Ghassan Khatib dalla parte araba.
Poi abbiamo visto la sistematica demolizione da parte del Governo israeliano, voluta, programmata studiata a tavolino, dell’opzione della resa della terra.
L’altro giorno viaggiavo tranquillamente sulla strada che da Gerusalemme va verso Hebron, sono 40 Chilometri, ma rispetto a 10 anni fa è tutto cambiato: il pullulare di colonie, coloniette, basi militari, campi interrotti, vicoli, tratturi, sentieri per i carri armati che vanno a bella posta a sventrare gli uliveti, a distruggere i campi all’interno delle proprietà palestinesi senza nessun rispetto.
C’è stata una voluta e programmata politica di annessione e questo vuol dire che se si dovesse ritornare a un processo di pace si dovrebbero sradicare 500.000 coloni ebrei israeliani che non se ne vogliono andare.
Fra i coloni c’è una divisione che fanno gli stessi israeliani fra i cosiddetti coloni economici e i coloni ideologici.
Chi sono i coloni ideologici? Sono quelli che hanno spinto per questa situazione, sono un misto di religione e nazionalismo; sono 80.000, meno di 100.000, ma sono il motore propulsore, sono quelli che hanno inventato l’ideologia dell’occupazione, sono quelli che dicono che Dio lo vuole e che, quindi, chi va contro Dio merita di essere punito, come è stato punito Rabin, il kapo Rabin come si diceva allora.
E poi ci sono i coloni economici, tutta una serie di persone di centro destra, conservatori, a cui sono stati offerti una serie di incentivi molto allettanti (pagare meno tasse, l’automobile, ecc…) non solo da parte dello Stato: non dimentichiamo che questo è un paese che ha un rapporto simbiotico con la diaspora ebraica. Sono le organizzazioni ebraiche americane che finanziano lo studio dei ragazzi nelle Yeshivah, le scuole religiose nei territori dentro le colonie; nascono dei movimenti di boy-scout improntati a conoscere la terra per appropriarsene; c’è tutto questo grande movimento di aspirazione collettiva che contribuisce a questo impedimento della resa della terra.
Certo, gli americani potrebbero dirlo: non vi siamo più un soldo, siete isolati se state nella parte araba.
Lo trovo molto complicato, ma potrebbero farlo; c’è chi dice che l’unico modo sarebbe una seria, decisa spinta americana a non continuare e a smantellare la colonizzazione.
Però, soprattutto in questo momento, l’efferato crimine di Hamas, il terrorismo di Hamas (noi possiamo cercare di capire le ragioni palestinesi finchè vogliamo, ma si è trattato di una violenza inaudita anche con tutta la frustrazione di questi giovani che possiamo cercare di capire ma certo, non condonarla, anche perché per i palestinesi le conseguenze sono quelle che stiamo vedendo. Non sono 8.000 morti perché Hamas ha in mano il Ministero della Sanità di Gaza e sono 6.000? Può essere! Ma certamente stiamo parlando di migliaia e migliaia di morti civili, bambini, donne, anziani.

Nel resto dei territori palestinesi cosa sta succedendo? Abbiamo visto cosa è accaduto a Jenin l’altro giorno.
Noi siamo un piccolo organismo di “periferia” che qui a Reggio Calabria ha messo in piedi, insieme all’Università Mediterranea, questo Laboratori per studiare il conflitto e, come s’immaginerà, ci occupiamo di piccoli conflitti quotidiani che sono quelli che regolano la convivenza tra vicini, tra familiari, tra fratelli e cerchiamo di raccontarli agli avvocati del nostro foro, agli studenti delle nostre università, quindi è ovvio che questo è un conflitto che va molto al di là della nostra comprensione; però la dinamica del conflitto è sempre la stessa, è guardare l’altro per convincerlo a cambiare, diceva Amos Oz che lei citava prima, è guardare l’altro soltanto dal proprio punto di vista. Come è visto, percepito, in questo momento quello che sta accadendo a Gaza nei territori occupati e qual è il rischio, perché abbiamo visto che Hamas ha richiamato in Cisgiordania gli uomini alla lotta armata, qual è il pericolo di un allargamento interno?
Questa è un’altra delle falsità della propaganda israeliana quando dicono che questo è un nuovo olocausto, una nuova Shoah, un nuovo pogrom, la grande differenza che è scritta sui giornali, ma non soltanto su Haaretz il grande quotidiano della sinistra liberale minoritaria e elitaria, ma anche su Yedioth Ahronoth e nelle televisioni, la grande differenza tra l’Israele prima della persecuzione nazista è che l’Israele di oggi ha un esercito potente che è infinitamente superiore alla forza militare di Hamas che non è convenzionale quindi è guerriglia e la storia recente ci insegna quanto sia difficile per un esercito convenzionale combattere una guerriglia determinata, ben trincerata e con uomini decisi a morire, però certamente c’è questa incommensurabile forza fra le due parti. Questo vuol dire che se Gaza sta combattendo una guerriglia preparata da Hamas, quindi complicata, ma non ho dubbi che alla fine gli israeliani faranno quello che vorranno, dipende quanto sono disposti a “spendere”.
Invece la Cisgiordania. La Cisgiordania è tenuta con il pungo di ferro. Gli israeliani la conoscono benissimo, ha una rete di collaborazionisti, di spie che pagano molto attiva. Io non mi aspetto grandissime cose, semplicemente perché non le possono fare. Forse è più probabile che la minaccia arrivi da hezbollah, dal Libano.
I coloni sono armati, studiano e, mentre prima erano separati, adesso c’è un’interconnessione tra residenze dei coloni e campo militare; hanno il figlio che esce dal kibbutz si toglie la cravatta e il vestito civile, si mette l’uniforme che tiene nella cantina ed è già operativo.
Quindi è una situazione di assoluto controllo che presenta un problema, che è il timore dei palestinesi: gli israeliani potrebbero, una volta preso atto che c’è una volontà di vendetta dai palestinesi che si sono ringalluzziti da quella che chiamano la “vittoria” del 7 ottobre, per ricostituirsi, per creare delle colonne militari che Israele non può sopportare.
Attenzione, conosco bene Israele e se capisce che in Cisgiordania c’è questo rischio, ci sarà un altro bagno di sangue. Io ho l’impressione che c’è grande paura, che c’è il grande imbarazzo di Abu Mazen, il successore di Arafat, di cui non abbiamo parlato, ma il campo è a sua volta palestinese diviso in modo profondissimo, c’è questa divisione di base fra l’OLP laico, gli eredi di Yasser Arafat, che una volta erano la lotta armata per antonomasia e adesso sono diventati l’interlocutore politico e potrebbero ritornare ad essere legati alla forza armata e poi Hamas, che comunque è un movimento criminale, che noi stessi europei definiamo terrorista per cui non vogliamo rapporti, non è Isis – ripeto – ma è un movimento che predica violenza, che predica lo sterminio degli ebri, siamo al momento di scontro armato nei territori però con gli israeliani che hanno il monopolio della forza e il controllo che negli ultimi tempi si è accresciuto per via delle colonie e questo misto fra elemento militare ed elemento militante civile.

Lei citava Abu Mazen che sostanzialmente è il grande assente del dibattito. Non c’è stata nessuna dichiarazione dell’Autorità Nazionale Palestinese.
Come ne usciranno Abu Mazen e Netanyahu quando le armi cesseranno?
Ghassan Khatib che è stato uno dei grandi consiglieri di Arafat, ex Ministro dell’Autonomia Palestinese ai tempi di Oslo, mi ha detto una cosa sacrosanta: nessun leader palestinese per quanto moderato, per quanto pronto al compromesso accetterà mai di arrivare a governare Gaza con un carrarmato israeliano e gli israeliani cosa fanno? Spazzano via quelli di Hamas - che a questo punto agli occhi dei giovani palestinesi diventano degli eroi che hanno riportato la questione palestinese sui tavoli dei negoziati all’attenzione internazionale – e mettono Abu Mazen? Anziano, corrotto, nepotista.
Netanyahu – non son parole mie, ma parole scritte sui media locali – ha giocato sulla divisione tra Hamas e Olp e Al-Fatah che c’era e che lui ha alimentato per poter poi dire al mondo che è impossibile parlare con i palestinesi che sono divisi e, oltretutto da una parte hanno uno corrotto e dall’altra hanno Isis in versione palestinese.
Siamo in un momento di guerra.
La guerra ha di caratteristico che si disumanizza l’avversario; sono “animali umani” ["Niente elettricità, niente cibo, niente benzina, niente acqua. Tutto chiuso. Combattiamo contro degli animali umani e agiamo di conseguenza" dichiarazione del ministro della Difesa di Israele Yoav Gallant annunciando l'assedio totale di Gaza N.d.R.], lo si rende anche più pericoloso, più minaccioso di quanto non sia e poi si parla di impossibilità di 2non scelta2. Ma se tu decidi domani di iniziare a trattare con Doah per la resa degli ostaggi, la scelta ce l’hai.
Nella convinzione in questo momento di tutte e due i lati che possono vincere. Quindi, non vedo dialogo di pace davanti a noi.

Era l’ultima domanda che avrei voluto farle, quella di una soluzione negoziale del conflitto.
Ma L’Europa cosa può fare? Siamo abbastanza divisi e abbiamo qualche imbarazzo.
Per chi come me si occupa di conflitto, da un punto di vista simbolico, il Cancelliere tedesco che si reca in visita ad Israele è una bella immagine.
Significa che se dopo la Shoah gli ebrei e i tedeschi sono riusciti a riattivare un dialogo, forse prima o poi ci sarà lo stesso effetto fra israeliani e palestinesi.
Anche perché quello dei palestinesi è un mondo complesso: davanti a questa complessità l’Europa come può intervenire per provare ad essere un interlocutore credibile, un negoziatore e chi potrebbe negoziare, oltre gli americani?
L’Europa è riuscita a malapena è riuscita a elaborare una politica comune di sostegno all’Ucraina che pure per noi è molto più importante e minacciosa, più esistenziale che non la questione israelo-palestinese e nonostante questo ci ha messo due anni, faticosamente, a mettersi insieme a decidere sugli aiuti, la polemica sulle armi, per la mancanza di una politica estera comune.
Sparare sull’Europa è come sparare sulla Croce Rossa, l’Europa è quello che è: una potenza economica di grande levatura, dove si vive molto bene, dove ci sono ottime democrazie, dove i diritti dell’individuo sono assolutamente garantiti, però non riesce ad esprimere velocemente una politica estera di guerra, non ha un esercito proprio, dipende dagli americani.
L’Europa è sempre stata la mucca da mungere, è stata utile ad alleviare le sofferenze dei palestinesi, a costruire le cliniche, per gli aiuti umanitari e poco altro.
Io non vedo in questo momento che l’Europa possa giocare un ruolo. Anche perché, in questa crisi lo vedo con me stesso, non siamo capaci di sederci ad esaminare il problema. È subito Milan-Inter, guelfi e ghibellini, si ragiona più di pancia che non di testa. Uno che vuole cercare di capire viene accusato di giustificare una violenza piuttosto che l’altra. Cosa che non avviene per i russi e gli ucraini, per un conflitto in Africa, per la Libia, semplicemente si esprimono delle idee, delle valutazioni. Per questo conflitto non è così: siamo vittime anche noi di questa retorica bellicistica che mira ad eliminare l’avversario.
 
     
     
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